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Nero espressivo

Tema: Pace giustizia e istituzioni forti  2023

 

Coesistenza atrofica

30x30x210cm 

Legno nero - Essenza Zebrano

 

 

Davanti a due monoliti neri a base quadrata in cui è interposta una sfera ci si interroga sui comportamenti dell’essere umano.

Pellegrini ha immaginato una società come un solido sferico, dove l’attributo di sfericità vincola all’idea di perfezione. Questa sensazione, difficile da spiegare, ma già intuita da Parmenide nel 500 a.c., forse è riconducibile all’equidistanza dal centro, all’equilibro, allo stare assieme ed evoca una sorta di pace, tranquillità, uguaglianza, giustizia e un senso comune di sostentamento.

Purtroppo nessun sistema così strutturato ha questo grado di irreprensibilità per questo è propriamente utopico. Nella società reale le persone si mostrano in competizione, cercano di prevaricare, di percorrere vie che il più delle volte lasciano soltanto un senso di vuoto.

 

Per soddisfare entrambi i concetti di sogno e realtà nasce una scultura assemblando duemilaottocentottanta “individui” lignei, dei quali duemilaottocentoventicinque perfettamente allineati a formare una superficie sferica e cinquantacinque che ricercano spazi nel volume appena creato.

La sfera proposta si presenta con un assetto alterato, violata mostra la sua vulnerabilità e al tempo stesso la sua sostenibilità.  La percezione è di un insieme espropriato di risorse senza che null’altro prenda forma.

Non è la compressione ai poli dovuta ai due monoliti a debilitate il solido, ma è quella piccola disgregazione a evidenziare la responsabilità dei componenti stessi a violarne l’equilibrio.

L’intervento di risanamento necessario per non cadere, passo dopo passo, nel degrado totale è da applicare allora al singolo soggetto educandolo alla pace e alla giustizia, facendolo riemergere alla superficie in modo che ricomponga nuovamente il solido “perfetto”.

 Il presente contributo  per l’opera Coesistenza atrofica è in due parti. lo scritto  M. Ferrario "Principi di realtà: l’irrisoluto dell’opera d’arte" è da considerarsi congiunto e complementare a M.G. Cipolla, "Solidi e anti-mondo: l’interrogarsi della forma".

 

 M. Ferrario                  Principi di realtà: l’irrisoluto dell’opera d’arte

 

È difficile far congedare il pensiero sulle opere d’arte da quel tepore idealistico delle filosofie del primo Ottocento. Contesto in particolare la coda a strascico che ha lasciato l’interpretazione romantica delle opere d’arte, per cui si crede ancora che Bellezza sia un attributo degli oggetti, l’Artista un disvelatore, che l’Assoluto sia qualcosa di importante di cui parlare. Quando lo Streben si trasforma in pulsione, l’intuizione artistica in sublimazione, la trascendenza in rappresentazione dunque si crea l’uomo di oggi. È complesso dare una nuova interpretazione a pensieri con un corpo come l’Altare della Buona Fortuna di Goethe. Parlare di eidos, di dualismi finito/infinito, di physis, che peso ha nel nostro presente? Non vogliamo fare esercizi di scrittura a vuoto. Le topiche del micro e macrocosmo, del nascondimento e svelamento, solo per citarne alcune, sono diventate stanche. L’opera nella contemporaneità vuol essere concepita in divenire, senza un’essenza, non identica a se stessa nel tempo. Un’opera dall’identità non definita e indefinitiva, creata dalle molte, troppe variabili del corpo del mondo, possibilità nutrita di determinanti difficilmente prefigurabili. Un pensiero dell’identità è un ontologismo; un pensiero dell’aperto è un tentativo.

Il fatto che forme simili sono interpretabili addirittura in maniera polare, significa che l’alieno è presente già da e in noi stessi. Una sfera e un solido quadrangolare sono spesso i segni che rimandano al motore del pensiero astratto, alla geometria e alla capacità dell’uomo di concettualizzare. Sono possibilità che mettono davanti l’uomo a essere spettatore del proprio miglioramento tecnico, come avviene per i solidi di Pacioli. L’uomo comincia ad interiorizzare le capacità che prima erano solo di Dio: comincia a spostare il proprio punto di vista su se stesso, si incuriosisce: osserva la natura ma la vuole anche imitare, potenzia il suo pensiero simbolico per rappresentarsela astrattamente, vuole sentirsi libero di automodificarsi. Saggia se stesso, gusta i suoi sapori, si tocca. L’uomo del Rinascimento è mitopoieticamente Cristo, immagine ideale dell’uomo stesso. Ribelle arrendevole in un sistema che si pensa in rapporto a un dio.

Lo stato della fanciullezza si supera però non senza un vissuto scabro. Più sinceramente consapevole l’uomo si è reso conto di poter stare al di fuori del sistema, di poter essere Super-Uomo ma anche non poter più essere uomo, di essere qualcosa di “post-”. Ed è qui, nella nostra contemporaneità che il segno e quindi la possibilità espressiva langue, mentre i processi di significazione sono vivi.

La sfera rimane un tentativo di concettualizzare l’esperienza fenomenica: tutto ha una forma, niente è sferico, nemmeno l’occhio con cui vediamo, anzi nemmeno si è scoperto perché ha una forma rotonda. L’unica possibilità per la sfera è quella di essere, paradossalmente, un’approssimazione della realtà e l’oggetto astronomico è quello che più gli assomiglia. Ci sono poi casi interessanti di sfere che vogliono assomigliare ai minerali come i cristalli di pirite - ma chi ha mai visto un cristallo di pirite e pure così astratto? -. I bambini quando cominciano a disegnare la figura umana tracciano una linea circolare per descrivere il viso, accorgendosi però di aver fallito nella rappresentazione realistica (per una incapacità di sintesi del tutto), dando così vita alla rappresentazione astratta del modello mentale rimanendo comunque in estremo contatto col mondo esterno.

​

Michele Giuliano Cipolla        Solidi e anti-mondo: l'interrogarsi della forma

 

La scultura di Flavio Pellegrini si presenta agli occhi dello spettatore come se fosse atterrata nello spazio espositivo da chissà dove, o meglio, come se fosse apparsa. Troviamo molto complicato descrivere quest’opera senza fare affidamento a un vocabolario sacro o scientifico, a un lessico che ci permetta di estrinsecare l’essenza di un oggetto che non sembra appartenere al mondo fenomenico. La ieraticità della forma, la sua silenziosissima quiete, imbeve la struttura di un’affascinante autonomia e pare cancellare tutto ciò che le sta intorno: vive solo questo pilastro con la sua sfera e nient’altro, nient’altro può esistere e resistergli accanto, esso si manifesta. La solennità dello scuro monolito subisce però un intermezzo, una pausa globiforme che costringe lo sguardo a fermarsi e a compiere una visione più approfondita. Questo elemento dal colore e dalla foggia differente è un’ulteriore rivelazione all’interno della ierofania della colonna.

La scultura conserva un intrigante tranello che possiamo risolvere con l’aiuto delle celebri leggi della Gestalt. Lo spettatore vede davanti a sé una struttura intervallata, nella sua porzione superiore, da un oggetto sferico: in realtà, a un livello sinteticamente formale, le componenti presenti non sono due (colonna e globo), bensì tre: parallelepipedo lungo (inferiore), globo, parallelepipedo corto (superiore). Nella sopracitata psicologia della forma tedesca questo effetto percettivo prende il nome di “Gesetz der guten Fortsetzung ”, ovvero “legge della buona continuità”, ciò significa che gli elementi affini per dimensione, forma o colore sono avvertiti come un unico insieme unitario e coerente, nonostante essi possano esistere in maniera indipendente, distinti l'uno dall’altro. È chiaro che la pregnante verticalità del complesso, assieme alla sua conformità materica e cromatica, ci permette di assistere all’opera intuendola come “gruppo”, e non credo che l’artista vorrebbe che la percepissimo diversamente. All’interno di questa continuità, però, vige un’altra equivocità che provoca nuovi quesiti: la sfera è un’intrusione esterna o è lo svelamento di un nucleo interno alla scultura?

Torniamo alla regola gestaltica sottolineata in precedenza e sovrapponiamola a uno dei temi più appassionanti della fisica novecentesca: l’antimateria. Per ogni particella esiste simmetricamente una seconda particella (la cosiddetta “antiparticella”) che presenta la stessa massa e una carica elettrica opposta: l’antimateria è, dunque, un mondo identico al nostro ma che si oppone ad esso, un oggetto a cui corrisponde un doppio. Guardando l’opera di Pellegrini, la suggestione è palese. Lo diventa ancora di più quando si legge che l’incontro-scontro tra materia e antimateria può generare una quantità di energia straordinariamente grande nel momento in cui questi poli giungono a toccarsi. Come si fa, a questo punto, a non cedere ad immaginare quell’elemento globulare della scultura come un ganglio di energia in ebollizione, come una massa di luce magmatica pronta a deflagrare, con tutte quelle agitate venature lignee che dinamizzano l’inerte nero dei due prismi quadrangolari? Ovviamente, questa riflessione non vuole certo ambire a una dura scientificità, e nemmeno risultare bizzarra o incongruente, ma credo sia importante tenere in considerazione le scoperte della fisica relativamente all’analisi di un artista che pochi anni fa ha esposto alcune sue opere, guarda caso, al CERN di Ginevra.

E che dire di quella sorta di macchia buia che sembra corrodere la sfera? L’ennesimo fattore di difficile interpretazione che questa interrogante struttura esibisce. Questa erosione superficiale sembrerebbe da imputare ai due poliedri, quello inferiore somigliante a un piedistallo, e quello superiore, più piccolo, che sembra un dado allungato espropriato della sua funzione basale. Il monolito, tagliato in due parti asimmetricamente, pare smangiare l’epidermide della sfera e assorbirla al proprio interno, come se quest’ultima stesse per diventare anch’essa parte del parallelepipedo, oppure ancora come se essa fosse destinata a scomparire per sempre, a sfumare, a dileguarsi con l’intento di fare combaciare finalmente i due prismi che separa.

Che sia un atto di fusione, di frapposizione, di costrizione o di scissione, resterebbero comunque poche certezze e ancora meno affermazioni sarebbero possibili (o peggio, risulterebbero infondate). Le opere di Pellegrini hanno abituato lo spettatore a sentirsi a proprio agio sotto la burrasca di interrogativi che i suoi lavori confessano, a non sconcertarsi di fronte all’assenza di risoluzioni, e soprattutto a cercare risposte tra le fibre, nei loro silenzi più corposi.

Sentieri emozionali

Sono davanti all’entrata, ma qualcosa mi trattiene dall’oltrepassare la soglia della galleria d’arte.

So cos’è.

Ho bisogno di pochi minuti con me stessa per prepararmi a quello che vedrò, perché ogni volta è come fosse la prima, pur sapendo che dentro io troverò Flavio, che conosco bene.

Flavio col suo entusiasmo.

Flavio con le sue creazioni.

Flavio, che rivedo concentrato davanti al suo computer, mentre sullo schermo si scompongono e si ricompongono linee colorate e forme geometriche in un instancabile lavoro di ricerca, una ricerca emotiva ed al contempo virtuosa.

Quando lo osservo così, posso quasi sentire l’allegra confusione che i progetti scatenano nella sua mente per aggiudicarsi il diritto di essere presi in considerazione.

La sua è un’incursione nel linguaggio dei segni filtrata da una consapevolezza matura e mai affidata a se stessa.

Si, io lo conosco e so che con talento, passione ed ostinata determinazione a procedere anche contro venti contrari, Flavio sfida l’ignoto per affrontare e dominare anche l’irrazionale.

Ecco, ora sono pronta, ho preparato la base, ho fatto mio lo sguardo di un bambino che vuole scoprire ed imparare il mondo ed i presupposti sono favorevoli, posso entrare.

All’interno della galleria dalle pareti immacolate il nero mi accoglie.

Sono circondata da quadri dai quali emerge la sapiente ricerca progettuale e l’adozione di tecniche inesplorate, mentre una raffinata personalità delinea lo stile delle opere, in aggiunta alla continuità cromatica che ne esalta le geometrie.

Quando scrivo non invento nulla, osservo solo la realtà da diversi punti di vista e cerco di tradurre in parole le emozioni che provo, ma come posso descrivere la luminosità di un quadro nero?

Mi soffermo davanti ad ogni quadro, vivo la luce che muove e riscalda l’ambiente e mi lascio catturare dal misterioso e ambiguo potere del nero, che a tratti si fa abbagliante.

Il gioco intrigante di luci ed ombre dà vita ad un equilibrio rigoroso.

Così come la naturalezza armoniosa di una diversità discontinua, ma equilibrata, rende interessante il gioco tra la dura eleganza del materiale e la freschezza leggera delle incisioni.

In quello che sto vedendo vive la bellezza, che non è solo piacere per gli occhi e contatto con le morbide forme, ma è assoluta libertà di interpretazione.

E’ una bellezza poliedrica che assume il potere del fascino, che scatena emozioni e tensioni e che richiede abbandono.

Flavio sa mettere la vita dentro le cose che fa ed è se stesso a tal punto da sorprendermi ogni giorno.

Questa è l’atmosfera in cui nascono e crescono le Forme d’Ordine.                                                                                                                                  Lorena

 

flavio pellegrini
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